A cura di Gianni Faccin
Prima parte
Scriviamo qui del cosiddetto Terzo settore, di cui anche noi facciamo parte da molti anni, che non riguarda i settori economici, ma bensì la suddivisione di contributi all’interesse generale, o meglio, per usare parole che paiono in disuso, al bene comune. Nel nostro caso con attenzione alle persone dei nostri territori.
Di Terzo settore abbiamo già scritto in passato, con l’avvento della nota “riforma del Terzo settore”. Correva l’anno 2014 (Governo Renzi), e nel 2017 si è arrivati alla normativa dedicata (Dlgs 117/2017) che si è applicata a partire dal 1° Gennaio 2018 alle Organizzazioni non lucrative di utilità sociale in sigla ONLUS, alle organizzazioni di volontariato ed alle associazioni di promozione sociale in sigla ODV e APS, iscritte negli appositi registri regionali.

Ma quale è il senso del titolo che abbiamo dato a questo pezzo?
È presto detto, premettendo che non è in discussione l’importanza degli altri due settori, anzi. Il fatto è che negli anni abbiamo visto il ridimensionamento progressivo del primo settore con il conseguente potenziale e reale sviluppo – prevalentemente in termini di business – del secondo settore. Con inevitabili conseguenze rispetto alla produzione di iniquità, in tempi in cui le disparità si esaltano costantemente, dall’alto al basso e viceversa. Infatti, anche la “povertà” è condizionata dalle regole della globalizzazione.
Ma quali sono i settori di cui non si parla più di tanto perché “fanno la parte del leone” e di cui nessuno s’impegna per una rivisitazione, per una lettura critica o per una riforma che sarebbe urgente? Ebbene, al primo settore appartengono la pubblica amministrazione e lo Stato. Al secondo settore le imprese private. Il primo risponde alla fine ai cittadini, che contribuiscono con tasse e imposte; il secondo risponde al mercato, ma più prossimamente ai soci-azionisti, alla relativa leadership, un po’ meno agli altri portatori d’interesse (consumatori, dipendenti, territorio, Stato e fisco).
E quale è il settore di cui si continua a parlare e che nonostante sia stato riformato sulla carta da un lato non pare essere una priorità per chi ci governa (a livello nazionale come a livello locale) e dall’altro si vede rivolgere continue e progressive istanze di intervento integrativo quando va bene, ma ormai ordinariamente di intervento sostitutivo?
E già, è il Terzo settore che se chiudesse i battenti farebbe crollare la piattaforma.

Per i non addetti ai lavori esso è un insieme di enti di carattere privato che agiscono in diversi ambiti, dall’assistenza alle persone con disabilità alla tutela dell’ambiente, dai servizi sanitari e socio – assistenziali all’animazione culturale. Spesso gestiscono servizi di welfare istituzionale e sono presenti per la tutela del bene comune e la salvaguardia dei diritti negati.
Per far parte del Terzo settore è necessario essere un ente privato che agisce senza scopo di lucro; svolgere attività di interesse generale (definite dalla legge); farlo per finalità civiche, solidaristiche e di utilità sociale e, infine, essere iscritto al registro unico nazionale del Terzo settore. In definitiva, quest’ultimo è un sistema sociale ed economico che si affianca alle istituzioni pubbliche e al mercato e che interagisce con entrambi per l’interesse delle comunità.
Condivide con il “primo” e il “secondo” settore alcuni elementi. Infatti, come le istituzioni pubbliche, svolge attività di interesse generale e come il mercato, è composto da enti privati. Questi aspetti si rimescolano, dando vita ad un nuovo originale soggetto.
Pare sia tutto tranquillo, ma non è così. A dieci anni dall’inizio dei lavori stiamo ancora parlando della riforma e della sua concretizzazione, e il Parlamento teleguidato da chi governa ormai in modo molto autoreferenziale e sfacciatamente personalistico, non fa altro che procrastinare decisioni importanti.
Si pensi che siamo nel 2025 e si discute ancora se applicare il regime Iva, sapendo che più che tali applicazioni è l’incertezza sul futuro degli Ets (Enti del terzo settore) a pesare e a provocare alla fine qualcosa che forse è desiderato da qualcuno, ossia la fuga dal “volontariato organizzato e associato” e quindi l’uscita di scena di una miriade di Ets operativi da decenni in Italia e che intervengono costantemente dove il pubblico non ce la fa o non vuole arrivare e dove il privato non ha interesse a partecipare.
Per quest’ultima considerazione vale la prova che per il privato, persona o impresa che sia, spesso – per quanto sia importante e quando va bene -, conta agire come filantropo il che è un bene ma non è detto che favorisca un reale cambiamento nelle persone e nel contesto interessati.
Si pensi che il glorioso “cantiere del Terzo settore” è appunto ancora operativo e anche necessario perché il percorso di riforma pare non avere fine. E intanto, mentre la povertà cresce a dismisura, il volontariato attivo invecchia, i volontari diminuiscono, la burocrazia cresce insieme alle patologie, alle solitudini e alle paure, si discute ancora di Iva e si lasciano le associazioni, specialmente quelle più piccole, nella massima incertezza, e così tutto il “settore”. Ma ci rendiamo conto?
[segue nel prossimo numero che uscirà il 20 febbraio]

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Con affetto
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